4 domande a Giampiero Marchiori

Piero Marchiori, fotografo professionista da oltre un trentennio, parla di fotografia applicata alla comunicazione stupendosi un poco, ma non troppo, sulla rapidità con cui oggi tutto avviene. E fa un esempio che riguarda il suo mestiere: le macchine fotografiche, ovviamente digitali, con i dispositivi incorporati per la mail, in modo che il reporter non perda tempo. Scatta e trasmette dal suo apparecchio  perché l’immagine appena catturata giunga in tempo reale al giornale e alla rivista. E’ quello che accade con gli smartphone e i tablet. Soltanto che la differenza c’è, ed è anche molta. Chi scatta occasionalmente, in genere lo fa anche senza pensare perché gli si presenta la circostanza. Chi agisce professionalmente, deve invece tener conto di una serie di fattori: luci, circostanze del momento, persone, contesti di spazio e di tempo. Ma soprattutto rende razionale una emozione che trasmette immediatamente alla macchina fotografica, sempre meno disposta nella sua meccanicità a lasciargli tempo.
Il fotografo professionista Marchiori, 61 anni, è perdutamente innamorato del suo lavoro, che negli anni Settanta e Ottanta incominciò a Milano in un atelier importante della città lombarda. Quando parla di quello che fa, puntualmente richiama Sebastiano Salgado, il fotografo brasiliano i cui soggetti ormai sono la natura, l’ecologia e l’umanità fatta di muscoli, sangue e anima che vibrano nella foresta amazzonica, o altrove in ogni angolo del mondo. Tuttavia, Piero Marchiori, con i piedi ben fissi al suolo di risaia, parla dei suoi ritratti non pittorici bensì classici che si nutrono delle atmosfere e delle luci giuste. E parla dei suoi soggetti catalogati nel food and beverage, cioè il cibo e il vino entrambe manifestazioni di cultura e genuinità del territorio. E parla anche delle sue modelle dietro alle quali c’è l’economia, l’industriosità delle persone, sicuramente quelle come le intende Sebastiano Salgado. Da un anno, Marchiori insegna all’Università Popolare di Vercelli, presieduta da Paola Bernascone. Però è un insegnamento rapido, essenziale e di sostanza perché - dice - insegnare è il modo più genuino di comunicare.
 
 
  •  Piero Marchiori, a metà Ottocento, Nadar nel suo atelier di Parigi ospitò la prima mostra dedicata all’Impressionismo. Da allora ad oggi come è cambiato il concetto di immagine fissato su una lastra  e poi su un file?
  • Il concetto di immagine, pur seguendo sia le mode del momento sia l’evoluzione tecnica, nelle sue linee di base non è cambiato molto: le regole che definiscono gli schemi di illuminazione sono immutate, la luce continua viene tutt’ora usata, così come quella naturale ( basti pensare ai day light studios utilizzati per location di moda o di arredamento), soltanto i grossi e lenti flash da studio di solo quarant’anni fa si sono trasformati in piccoli e potenti strumenti di lavoro. Le immagini non sono cambiate molto, i reportage urbani sono diventati “street photography” ma continuano a documentare il quotidiano, dalla grande metropoli ai piccoli paesi; i ritratti seguono sempre le stesse regole (pur con leggere modifiche dettate dalle mode). L’immagine in sé è semplicemente diventata di immediata fruibilità e di facile accesso per chiunque e anche le attrezzature sono diventate più accessibili. L’immagine fotografica oggi è diventata figlia dei social network, di internet, viaggia velocissima e raggiunge utenti sparsi in tutto il mondo in tempo reale ma la sua anima, la sua essenza, non è poi così cambiata dai tempi di Nadar o, appena più tardi, di Weston o Cartier-Bresson…anzi ultimamente si tende a riscoprire il fascino della fotografia analogica e della relativa stampa in camera oscura.
  • Il digitale che si è impadronito della macchina fotografica, ma soprattutto i telefonini, hanno dato l’impressione di trasformare tutti in professionisti senza necessità di formazione che catturano l’attimo fuggente. Però, è davvero così e le nuove tecnologie hanno definitamente spodestato la bravura tecnica?
  • E’ vero, con la attuale semplicità ( fotografare bene è difficile come prima) nell’ottenere una fotografia, sempre più neofiti si sentono allo stesso livello dei professionisti ma il più delle volte le loro immagini, pur essendo di aspetto gradevole, sono vuote di contenuti e sensazioni. Franco Fontana in una recente intervista, con una battuta, affermò che anche una scimmia è in grado di scattare una fotografia a fuoco e diritta, nel senso che furia di scattare una vien fuori; ma è solo un’immagine, una BUONA fotografia è il risultato finale di un percorso di apprendimento della cultura fotografica, è frutto di esperienza. E questo si tende ad ignorarlo, si pretende il tutto e subito “tanto fa tutto la macchina” dimenticandosi che è chi vi sta dietro che conta. Gli smart phone, imputati principali nella globale orgia di immagini, se utilizzati con giudizio possono rivelarsi strumenti eccezionali nel reportage; da quando, un paio di anni fa ,il Washington Post pubblicò in prima pagina un’immagine realizzata con un iPhone, l’uso dei cellulari come strumenti di ripresa è stato sdoganato e accettato da parte dei media. Tutto ciò non esula dal conoscere ed acquisire la tecnica fotografica, per poi magari ignorarla o sovvertirla, fermo restando che per cambiare le regole, bisogna conoscerle.
  • Già negli anni Trenta, ma specialmente dopo la seconda guerra mondiale, si sono sviluppati i cineforum e i club fotografici. Questo  processo, anche alimentato da istituzioni come le Università Popolari, hanno favorito la diffusione della cultura per l’immagine?
  • Cineforum, circoli fotografici e ultimamente le Università Popolari hanno contribuito non poco alla diffusione della cultura fotografica: corsi base ed avanzati di fotografia, workshop, incontri ed uscite collettive per visite a mostre, contribuiscono (se ben organizzate e strutturate) a fornire gli strumenti necessari per “imparare a vedere” e conseguentemente registrare le immagini che si presentano ai nostri occhi; mi ricordo una frase, ma purtroppo non l’autore, che cita “ le fotografie al mondo esistono già, la bravura del fotografo sta nel vederle”…ecco, è questo che si dovrebbe insegnare, a vedere e, combinando la nostra capacità di vedere con le tecniche di ripresa, giungere alla realizzazione di un buon prodotto. Il che non è così semplice e richiede anni di studio ed esperienze, ma permette di comprendere la sottile differenza tra una bella e una buona fotografia: una bella fotografia si basa su un fattore estetico, una buona fotografia racconta…
  • La visione fotografica, ancor più diventata una ancella della pubblicità e del marketing, ha soffocato l’arte che aiuta a cogliere i veri significati dell’immagine del paesaggio, dell’opera artistica e degli autentici atteggiamenti umani diversissimi uno dall’altro?
  • Non credo che l’aspetto “commerciale” della fotografia abbia soffocato e prevaricato il valore artistico dell’immagine, anzi è vero il contrario (non sempre logicamente): grandi fotografi “commerciali” sono diventati vere e proprie icone del mondo fotografico, basti pensare ad Helmut Newton, Richard Avedon, Irving Penn, Annie Leibovitz per citarne alcuni; la loro visione artistica della fotografia si è riflessa nella realizzazione di progetti commerciali, legati quasi sempre alla moda o al ritratto. Anche nel settore principe della pubblicità, lo still life, molti fotografi hanno attinto dal mondo dell’arte una certa qual visione, creando a loro volta immagini d’arte; per citarne uno, l’italiano Renato Marcialis con il suo progetto “Caravaggio in cucina”, immagini di food realizzate con una particolare tecnica di illuminazione che riporta alle atmosfere dei quadri del Caravaggio appunto. Immagini ispirate all’arte sia classica sia moderna vengono ormai utilizzare per campagne pubblicitarie, in una ibridazione tra linguaggio contemporaneo e classicità espressiva…e i risultanti a volte non sono niente male