Quattro domande a Giorgia Casalone

Il dilemma dell’alfabetizzazione economica.
Il dilemma è: serve studiare e conseguire una laurea. Di più: nella forte febbre che dal 2007/2008 assilla il mondo internazionale della finanza, esiste un antidoto in grado di spingere nuovamente verso la normalità dei nostri conti di consumatori, una delle colonne dell’economia reale e dei conti delle nostre comunità? Il Kiwanis Club di Vercelli, presieduto da Piero Castello, ha scelto il tema per un incontro programmato per giovedì 26 febbraio a Borgovercelli. Uno dei riferimenti è costituito dalle rilevazioni periodiche dell’Istat che, purtroppo, concludono in questi termini: la disoccupazione giovanile ha ormai raggiunto la percentuale del 40% circa. Un altro riferimento, altrettanto preoccupante, è relativo ai giovani diplomati e laureati  che utilizzando gli investimenti della formazione in Italia emigrano all’estero per trovare una occupazione qualificata. E, soprattutto in America e in Germania, centrano l’obbiettivo. Dallo scenario, che continua ad essere a tinte cupe, deriva il quesito: conviene studiare? E quali prospettive per il nostro territorio? Più risposte, giovedì 26 febbraio, verranno a Borgovercelli dalla professoressa Giorgia Casalone, ricercatrice e appartenente al Dipartimento per l’economia e l’impresa (Disei) dell’Università del Piemonte Orientale, con sede a Vercelli, Novara, Alessandria.Va aggiunto che la professoressa Casalone a Novara, nel contesto dell’UPO, tiene corsi assai importanti per gli studenti di scienza della Finanza. E va anche aggiunto che a Novara, ormai da anni, l’UPO mette a disposizione dei giovani una assai sperimentata facoltà di economia. Ancora recentemente il quotidiano finanziario Sole 24 Ore ha preso in considerazione l’Università del Piemonte Orientale per la sua impostazione, classificandola al diciasettesimo posto su una sessantina di atenei italiani. Il sito Kiwanis Club Vercelli ha intervistato la professoressa Giorgia Casalone ponendole le quattro domande sulla alfabetizzazione economica del nostro Paese e sulla finanza più in generale. Ecco, di seguito, le risposte di Giorgia Casalone.

Le organizzazioni economiche internazionali, in termini un po’ più sfumati l’ABI e la Banca d’Italia, nei suoi ultimi report accusano gli italiani di essere analfabeti da un punto di vista della comprensione dell’economia, tanto che sono in parte elencati come causa fenomeni dannosi come il risparmio eccessivo, la deflazione e il rinviare ogni investimento anche famigliare ad un non meglio precisato futuro. Ma è proprio così, e in quali termini effettivamente reali visti dall’Università e dal mondo della docenza?
L’alfabetizzazione economica è, a mio avviso, solo uno dei problemi di alfabetizzazione che ha il nostro paese. Le comparazioni internazionali (OCSE in testa) ci collocano stabilmente agli ultimi posti per capacità di comprensione dei testi. Per quanto criticabili siano i cosiddetti test PISA (Program for International Student Assessment), i risultati dei nostri ragazzi in ambito matematico e scientifico sono piuttosto deludenti, anche se – bisogna dirlo – vi è una notevole eterogeneità a livello regionale e i progressi registrati negli ultimi anni sono stati considerevoli. Siamo, come noto, tra i paesi dove si legge meno. Se facciamo fatica a leggere e comprendere testi semplici, se la matematica per molti rappresenta in maniera quasi pregiudiziale una “bestia nera”, come possiamo pretendere di comprendere concetti relativamente complessi quali quelli economico/finanziari? Però attenzione.Dobbiamo ricordare anche da dove veniamo. Ancora all’inizio degli anni ’80 nel nostro paese metà della popolazione aveva al massimo la licenza elementare. Non ce lo dimentichiamo. Poiché, com’è noto, molto di quanto i figli apprendono dipende dal contesto familiare, ci vorrà del tempo prima che si vedano i risultati dell’aumento della scolarizzazione registrato negli ultimi decenni. Siamo partiti con un handicap rispetto ai paesi più sviluppati, con cui generalmente ci confrontiamo. Dobbiamo recuperare e farlo in fretta perché, nel frattempo, i paesi cosiddetti “emergenti” stanno investendo massicciamente in istruzione.

Nella jungla italiana della formazione e dell’aggiornamento continuo a Roma, Milano e in altre località stanno prendendo sempre più piede i corsi economi e di matematica applicata all’economia “fai da te”. Con il già ministro Severino, la febbre del recupero continuo della formazione si sta diffondendo alle professioni, giornalisti compresi. Questi “imperativi” non sono in contraddizione con la tesi secondo la quale lo studiare troppo anche alla Università non serve a nulla o serve a poco?
Non vorrei fare una difesa corporativa ma sarà che, facendo due conti, è da circa 36 anni che non passa giorno senza che non debba studiare e imparare qualcosa di nuovo, non sono assolutamente d’accordo con questa tesi. Non c’è un limite massimo allo studio e anzi tutti, indipendentemente dalla professione svolta, sappiamo che è necessario aggiornarsi continuamente. Il sapere impartito a scuola o nelle università è troppo teorico? Forse sì e infatti le università stanno facendo delle riflessioni su questi temi e stanno rivedendo la propria offerta formativa cercando di proporre nell’ambito dei propri curricula periodi di stage dove lo studente possa mettere in pratica ciò che ha imparato. L’investimento nell’istruzione dei propri figli resta l’investimento più remunerativo di tutti, come dimostrato da molteplici studi, non dimentichiamolo. Perché, al di là dell’aneddotica spesso scarsamente supportata dai dati, chi studia di più ha maggiori probabilità di trovare lavoro, stipendi mediamente più elevati e, in periodi di crisi come l’attuale, minori probabilità di perdere lavoro.

• La lamentata lacuna dell’analfabetismo economico sta inducendo, con convegni e seminari soprattutto del mondo scolastico e culturale, a chiedere l’introduzione obbligatoria dell’economia in ogni ordine delle scuole italiane, come già sta accadendo in diversi paesi UE. La stessa finalità è considerata dai piani scuola abbozzati dal Governo di Matteo Renzi. E’ la giusta strada da intraprendere, oppure abbiamo a disposizione altre vie produttive, soprattutto anche considerandoci come consumatori responsabili?
La mia impressione è che a scuola i bambini e i ragazzi abbiano già troppo da fare. Anche in questo caso le comparazioni internazionali ci dicono che i bambini in Italia studiano per troppe più ore rispetto ai loro coetanei, con risultati (purtroppo) non sempre corrispondenti agli sforzi. Dove si inserirebbe quest’ulteriore materia? Chi sarebbero i docenti preposti a questo genere di formazione? Forse mi ripeto. Ma se i ragazzi, a prescindere dal percorso formativo intrapreso, fossero messi nelle condizioni di leggere e comprendere testi, grafici, tabelle e avessero una formazione matematica tale da non indurli ad un rifiuto di tutto ciò che ha – anche lontanamente - a che vedere con quella materia, riuscirebbero autonomamente ad accedere alle basi dell’alfabetizzazione economico/finanziaria. Credo che i docenti della scuola siano sensibili a questi temi e si stiano molto sforzando in tal senso. Aspettiamo i risultati di questi sforzi.

Nell’intento del risparmio pubblico, ultimamente sulla istituzione di tante Università, compresa l’UPO di Vercelli, Novara Alessandria, è stato sostenuto tutto e il suo contrario. Ma poi, come ha appena rilevato il Sole 24 Ore, proprio l’UPO si è collocata per efficienza didattica al dodicesimo posto su 61 Atenei statali del nostro Paese. E la stessa analisi del quotidiano finanziario milanese ha evidenziato un altro aspetto positivo: i laureati nelle Università cosiddette di provincia trovano lavoro prima e sono anche giudicati più qualificati. Ma allora, contro quanto asserito dai troppi critici “da bar”, formarsi seriamente indipendentemente dalla sede di una Università, serve davvero, o no?
Mi lasci dire anzitutto che l’UPO è stata premiata sia nelle classifiche relative alla didattica che in quelle relative alla ricerca, la seconda fondamentale missione delle università. Questo a dimostrazione che si può fare bene anche in provincia e in realtà medio-piccole. Certo, dal punto di vista occupazionale, un laureato in un ateneo “storico” ha un vantaggio sulla carta, ovvero quello di avere un titolo rilasciato da un’istituzione conosciuta. Però poi i datori di lavoro guardano ai singoli curricula, agli esami superati, alle esperienze fatte (stage, lavori, ecc.), al tempo impiegato per laurearsi (importantissimo!). Sottopongono i candidati a colloqui e test per far emergere conoscenze, attitudini, motivazioni. E lì non è detto che un laureato in un ateneo più piccolo e meno conosciuto, che magari ha potuto contare su un corpo docente più attento e su una struttura organizzativa più rapida ed efficiente, non possa fare altrettanto bene, se non meglio.